La malinconia

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00lunedì 29 settembre 2008 20:00
Burton,i quattro elementi e altro


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Correva l’anno 1621 a Oxford, in Inghilterra, allorché viene dato alle stampe un ponderoso trattato, curioso sia per titolo che per autore: "The Anatomy of Melancholy" firmato da un "Democritus Junior".

Il libro incontrò un tale successo da essere poi ristampato altre quattro volte durante la vita dell’autore: nel 1624, 1628, 1632 e 1638. Lo scrittore era Robert Burton, un pastore anglicano di antica nobiltà agraria, nato a Lindley (52N46, 0W53), Leicestershire l’8 febbraio 1577 (il 18, secondo il nostro calendario).

Era versato in astrologia: ci sono molti riferimenti all’arte, sparsi qua e là. Come ebbe a scrivere, "Saturno fu il pianeta dominante del mio oroscopo e Marte quello che ha maggiormente influenzato la mia indole in perfetta congiunzione col mio ascendente; entrambi di buon auspicio nelle loro case ecc." Partendo da questi dati, è stato facile ricostruire il cielo natale di Burton, che molto verosimilmente vide la luce poco prima delle 9.00 a.m. Per stilare le brevi note di carattere astrologico che seguiranno, ho considerato le ore 8.55 a.m.

Un trattato dedicato alla Malinconia, e quindi anche alla follia.

Un argomento molto importante ed ampio, un’impresa titanica per la difficoltà e vastità della materia. Ma Burton vi è costretto da una forza a cui non può sottrarsi: "Quando per la prima volta mi sono assunto questo compito, et quod ait ille, impellente genio negotium suscepi [e, come dice Giovio, ho intrapreso quest’opera rispondendo a un impulso interiore], a questo miravo, vel ut lenirem animum scribendo [o] a calmare il mio animo scrivendo; poiché avevo gravidum cor foedum caput, una specie di ascesso in testa, di cui ero molto desideroso di liberarmi, e non potevo immaginare un modo più adatto di questo. Inoltre, non riuscirei a trattenermi, perché ubi dolor, ibi digitus, si deve grattare dove prude." (pag. 56)

Egli cadde in preda dello stesso impulso creativo che attanagliò Jung, già vecchio, il quale così si lamentava con l’amico Victor White, frate domenicano: "Poco dopo che Le scrissi, dovetti mettermi a scrivere un nuovo saggio di cui ignoravo il contenuto. Mi venne in mente che dovevo trattare alcuni dei punti più delicati riguardanti l’Anima, l’Animus, l’Ombra e – ultimo, ma non meno importante – il Sé. Ero contrario, perché volevo riposarmi la testa. Avevo recentemente sofferto di una grave forma d’insonnia e volevo starmene lontano dagli sforzi mentali. A dispetto di tutto, mi sentii costretto a scrivere alla cieca, senza minimamente vedere dove ero diretto. Solo dopo aver scritto 25 pagine in folio, cominciai a rendermi conto che il Cristo – non l’uomo ma l’essere divino – era il mio obbiettivo segreto. Ne rimasi scosso, poiché mi sentivo del tutto inadeguato a tanto compito." (lettera del 19/12/1947)

Anche il Nostro, accingendosi al lavoro, dovette sicuramente sentirsi sovrastato: "Sono certo che alla fine sarete d’accordo con me che esaminare correttamente questo umore, attraverso tutte le membra di questo nostro microcosmus, è un’impresa non meno grande della correzione degli errori cronologici nella monarchia assira, della quadratura del cerchio, o della scoperta dei passaggi degli stretti a nord-ovest e a nord-est. Si tratta di una scoperta importante quanto quella dell’«affamato» spagnolo (Ferdinando de Quiros) autore della Terra Australis Incognita, e tanto difficoltosa quanto correggere il moto di Marte e di Mercurio, cosa che mette in croce i nostri astronomi, o rettificare il Calendario Gregoriano." (pag. 75)

Malinconia deriva dal tardo latino melancholia, e questo dal greco melankholia, composto da melas, nero, e khole, bile. Bile nera, quindi. Uno dei quattro umori sempre presenti nel corpo umano e dalla cui combinazione dipendeva la salute o la malattia. Già nel corso del IV secolo a.C. si riteneva che un eccesso di bile nera portasse alla pazzia, e Aristotele dedica il XXX libro dei "Problemata" all’argomento. Una vera e propria monografia sulla bile nera.

Burton scrive sulla malinconia perché la conosce bene, ma non da teorico pedante, sebbene da chi l’ha sperimentata su di sé. "Per quanto mi riguarda, posso forse affermare con Mario in Sallustio: «Ciò che altri odono o di cui leggono, l’ho sentito e messo in pratica io stesso; essi traggono il loro sapere dai libri, io traggo il mio dalla malinconia.» E aggiunge ironicamente: "Experto crede Roberto [Credi a Robert, che è esperto!]. Io posso dire qualcosa per esperienza, aerumnabilis experientia me docuit [un’esperienza dolorosa mi ha ammaestrato]; e insieme a Didone posso affermare: Haud ignara mali miseris succurrere disco, aiuterei gli altri per simpatia." (pag. 57)

Robert Burton conobbe presto la durezza dell’istruzione del tempo, somministrata da tirannici insegnanti i cui metodi lasciarono in lui un’impronta duratura. Dopo la grammar school, a 16 anni si iscrisse al severissimo Brasenose College di Oxford dove rimane sei anni parlando solo latino, essendo proibito l’uso dell’inglese. Passa poi al Christ Church College del medesimo ateneo dove resterà per tutta la vita. Consegue prima il Bachelor of Arts, poi il Master of Arts. Nel 1614 ottiene il baccellierato in teologia e il permesso di predicare (ma la carriera ecclesiastica sarà modesta: diventerà prima vicario della chiesa di Saint Thomas, poi gli viene affidata la cura di Walesby nel 1622 e il beneficio parrocchiale di Seagrave nel 1630), ma la sua occupazione principale resta lo studio appassionato. Inizia la stesura della Anatomia della Malinconia. Nel 1616 si vota al celibato; espleta le mansioni di "tutor" al Christ Church College dove nel 1626 viene nominato bibliotecario. Muore a Oxford il 25 gennaio 1640 (il 4 febbraio secondo il calendario gregoriano), lasciando la sua biblioteca di duemila volumi alla prestigiosa Bodleiana. Aveva fatto testamento nell’agosto 1639 affermando che, sebbene si sentisse in buona salute, la morte avrebbe presto bussato alla sua porta. Abbandona questo mondo con un pizzico d’ironia: sulla pietra tombale vuole che sia inciso «Paucis notus, paucioribus ignotus, hic jacet Democritus Junior cui vitam dedit et mortem melancholia» [a pochi noto, ma a meno ancora ignoto, qui giace Democritus Junior a cui la melanconia donò vita e morte]

La sua vita è povera di eventi (le désespoir du biographe, annota sconsolato Jean Robert Simon); di sé scrive: "ho vissuto una vita silenziosa, sedentaria, solitaria, appartata, mihi et musis [per me e i miei studi] all’università, quasi come Senocrate in Atene, ad senectam fere [quasi fino alla vecchiaia] per imparare la sapienza come fece lui, completamente immerso per la maggior parte del tempo nei miei studi." (pag. 51) "Non sono né povero, né ricco: nihil est, nihil deest, ho poco, non ho bisogno di niente: tutto il mio tesoro è nella torre di Minerva. Poiché non sono mai riuscito a migliorare la mia posizione, non debbo niente a nessuno, ricevo ciò che mi è necessario (laus Deo) dai miei nobili e generosi protettori, sebbene io viva ancora come uno studente in collegio, come Democrito nel suo orticello, e conduca una vita monacale, ipse mihi theatrum [spettacolo sufficiente a me stesso] lontano dalle agitazioni e preocupazioni del mondo. […] In mezzo agli splendori e alle miserie del mondo – allegria, orgoglio, dubbi e preoccupazioni, onestà e scelleratezza; sagacia, furfanteria, franchezza e lealtà, tutte mescolate fra loro – io continuo la mia strada privus privatus [in completo isolamento]. Come son vissuto finora, così intendo continuare statu quo prius, nella mia vita solitaria e fra le mie domestiche angustie tranne che talvolta, ne quid mentior [per dir proprio tutto], come Diogene andava in città e Democrito al porto a vedere le novità, io vado fuori per svagarmi, osservo il mondo e non posso evitare di fare qualche piccola considerazione, non tam sagax observator, ac simplex recitator [non tanto per fare dure critiche, quanto per riportare semplicemente i fatti], non per schernire o ridere di tutto come loro, ma con un misto di partecipazione." (pag. 52, 54)

Anthony Wood (1632-1695), antiquario litigioso e appassionato storico di vicende oxoniensi, ci tramanda le seguenti note su Burton: "Era un matematico assai preciso, che stilava oroscopi per curiosità, un erudito, un filologo e uno che conosceva bene l’estimo. Molti lo consideravano un severo studioso, che divorava i libri, una persona malinconica e faceta e, secondo altri che lo conoscevano bene, una persona di grande onestà, trasparenza e carità. Diversi anziani del Christ Church affermano, li ho sentiti di persona più di una volta, che la compagnia di Burton era delle più amabili, vivaci e improntata a spirito giovanile, e che non c’era nessuno a quel tempo che sapesse superarlo nell’abilità e nella celerità con le quali interpolava la conversazione con versi di poeti e citazioni classiche. E poiché era quella la moda corrente all’università, la sua compagnia era ancor più gradita." (Athenae Oxonienses, 1691-1692)

I ritratti che ci sono rimasti lo dipingono di corporatura robusta, grassottello, la barba castano scura ben curata. Gli occhi grandi dallo sguardo ironico, una fronte alta e spaziosa rivelatrice di intelligenza e buona memoria. Naso energico, bocca decisa e caparbia, sebbene corretta da un labbro inferiore alquanto indulgente.

Burton aveva una memoria prodigiosa ed era di cultura sterminata: umanistica innanzitutto, ma anche scientifica. Sir William Osler negli anni ‘20 definì «Anatomia della malinconia» "il più grande trattato di medicina scritto da un laico". Jean Starobinski lo considera "una somma: tutta la «fisica», tutta la medicina, tutte le opinioni morali, una gran parte dell’eredità poetica della tradizione greco-latina e cristiana ci vengono offerte attraverso allusioni, frammenti, scampoli cuciti pezzo per pezzo. Ciò dispenserà numerosi lettori frettolosi dal ricorrere agli antichi: in questo libro dimora un’intera biblioteca."

Incastonata nell’introduzione, troviamo inoltre uno scritto di Burton sull’utopia, oggetto di commento da parte di numerosi studiosi di questi ultimi quaranta anni.

Dopo labirintiche e prolisse divagazioni, il Nostro espone infine con chiarezza il suo programma: "Nella trattazione che segue mi proporrò il fine di fare l’anatomia dell’umor malinconico, dei suoi aspetti e delle varie specie, se sia uno stato d’animo o una malattia usuale, e lo farò dal punto di vista filosofico e scientifico per indicarne la cause, i sintomi e le diverse cure, in modo che lo si possa meglio evitare." (pag. 167) Ma perché tanta attenzione per questo male? Osserva gravemente lo scrittore, che ora indossa i panni del pastore di anime: "Sono mosso a ciò dalla grande diffusione di questo male e dal desiderio di fare del bene. «Malattia frequente ai giorni nostri» osserva Mercuriale. «E’ una malattia così ricorrente nei nostri tempi miserevoli – dice Laurentius – che pochi sono coloro che non ne soffrono dolorosamente». Lo stesso giudizio esprimono Elia Montaltus, Melantone e altri. Giulio Cesare Claudino lo chiama «origine di tutte le altre malattie, così frequente nella nostra epoca dissennata che a mala pena uno su mille ne va esente»; si tratta di quell’umore splenetico ipocondriaco che proviene dalla milza e dai lombi. Trattandosi, dunque, di una malattia così dolorosa e così diffusa, non vedo altro modo di rendermi utile e di impiegare meglio il mio tempo che quello di indicare metodi per prevenire e curare una malattia così universale ed epidemica da straziare il corpo e la mente." (pag. 168)

Nessuno ne è esente. Sono colpiti uomini, vegetali, animali, regni, province e i corpi politici. Ma occorre distinguere; Burton si occupa di uno stato patologico, non di uno stato naturale, come si può rinvenire in certi minerali, piante ed animali. E non manca di tramandarci il suo catalogo. "Non parlo di quelle creature che sono «saturnine», malinconiche per natura, come il piombo o simili minerali, o quelle piante, ruta, cipresso ecc., e lo stesso ellleboro, di cui parla Agrippa, pesci, uccelli, e animali come lepri, conigli, ghiri ecc., gufi, pipistrelli uccelli notturni, ma di quella qualità artificiale che si percepisce in tutti loro."

Fra le cause primarie della melanconia, l’A. individua anche stelle e pianeti, e a questi dedica gran parte della sottosezione n. 4 del libro I, sezione 2, parte I. Appoggiandosi all’autorità di Melantone, Gioviano Pontano, Cardano e numerosi grandi astrologi, Robert Burton deduce che una delle cause della melanconia sia da ricercarsi nel forte influsso di Saturno, sia nell’oroscopo radicale che nelle rivoluzioni e transiti. La melanconia più generosa, come quella di Augusto, deriva dalla congiunzione di Giove e Saturno in Bilancia; quella più cattiva, come quella di Catilina, dall’unione di Luna e Saturno in Scorpione (secondo Melantone). Mercurio in Vergine o Pesci all’ascendente, irradiato dalla quadratura di Saturno o di Marte renderà folle o melanconico il nativo; chi, al momento della nascita, avrà Saturno culminante e Marte in casa IV sarà melanconico ma passibile di cura se Mercurio li guarderà con benevolenza; se all’ora della nascita la Luna si troverà in congiunzione o opposizione con il Sole, Saturno o Marte, o con essi in quadratura, ciò significa molte malattie, e specialmente la testa ed il cervello saranno verosimilmente colpiti da umori nocivi e i nativi saranno melanconici, lunatici o folli (secondo Gioviano Pontano). E ai possibili contestatori, Burton obbietta: ciò che riporto non proviene da zingari e truffatori da mercato, bensì dagli scritti di rispettabili medici e filosofi, alcuni ancora viventi, e professori di religione di università famose, ben in grado di giustificare pienamente ciò che affermano e prevalere su ogni cavillatore e ogni ignorante.

Nell’esordio dell’esauriente trattazione della malinconia d’amore, il nostro Autore scrive poi testualmente: "Le cause più remote sono gli astri. Ficino afferma che coloro che hanno nel loro oroscopo Venere nel Leone, o Luna e Venere in aspetto, o che siano di natura venusiana, manifestano maggior propensione verso questa bruciante lussuria. Plutarco interpreta astrologicamente quel racconto di Marte e Venere, e chi nel suo oroscopo ha in congiunzione Marte e Venere, sarà lascivo. Se è donna, sarà sgualdrina. Come ammette la comare di Bath in Chaucer:
Ho seguito la mia inclinazione
In virtù della mia costellazione

Ma di tutti gli aforismi astrologici che mi è mai capitato di leggere, quello di Cardano è il più memorabile. Il quale – per quanto sia stato criticato aspramente da Marinus Marcennus, frate insolente, e da alcuni altri – mi sembra esplicito, onesto, semplice e ingegnoso. Nell’ottavo oroscopo che cita a mo’ di esempio, dice di sé stesso: la congiunzione di Venere e Mercurio nella dignità di Saturno mi porteranno a pensare con tale intensità a cose veneree da non darmi mai pace." (Anatomy of Melancholy, vol. III, pag. 58-59. La traduzione dall’inglese è mia, quella dal latino è di Attilio Brilli & Franco Marucci)

Se ora esaminiamo il tema natale di Robert Burton secondo la visuale dell’astrologo contemporaneo, notiamo d’acchito alcune chiare indicazioni che trovano puntuale conferma – destinica e temperamentale - sia nei dati biografici che nella sua celebre Anatomy of Melancholy.

Saturno si trova altissimo al MC nel suo domicilio zodiacale del Capricorno;

Marte è "seduto" sull’Asc., anch’egli nel proprio domicilio dell’Ariete;

Sole e Mercurio sono strettamente congiunti in Acquario e in casa 12.

Il soggetto è quindi – in primis - un figlio di Saturno. Henri J. Gouchon nel suo celebre "Dizionario di Astrologia" ci offre il seguente ritratto teorico del saturnino. "[…]l’intelligenza di questo tipo si caratterizza per la sua profondità, per la sua attitudine alla riflessione e alla concentrazione. La comprensione e l’assimilazione non sono istantanee, ma le lezioni acquisite si imprimono profondamente, durevolmente di modo che il saturnino dà prova di una memoria sorprendente anche ad un’età avanzata. Nei suoi studi è molto minuzioso, molto paziente, insiste sui punti difficili, si accanisce nel sormontare difficoltà e riesce abitualmente a divenire un competente nella sua specialità. E’ pressappoco certo che per realizzare un’opera di ampio respiro nel campo filosofico o scientifico c’è bisogno di una forte sfumatura saturnina, più specialmente quando si debbano perseguire delle ricerche durante dei lustri. […] Mostrerà doti per la matematica, per tutte le scienze esatte […] E’ certamente la configurazione planetaria meno favorita per quel che riguarda il campo della vita amorosa. […] Nei destini più correnti il saturnino potrà abbracciare la carriera religiosa (ma ciò è più valido per il passato che attualmente), diventare un grande agricoltore, un agronomo, un architetto, un bibliotecario […] (pag. 716, 717). E, commentando la posizione dell’astro nel suo domicilio del Capricorno afferma: "Questa combinazione forma i lavoratori o i ricercatori minuziosi e pazienti che sono capaci di consacrare una intera vita alla esecuzione di un piano anche se non ricevono alcun incoraggiamento." (pag. 714)

Ricordo a questo proposito che sono ben 814 le note apposte da Burton alla sola introduzione del suo trattato. Ammontano ad alcune migliaia se si considera l’opera nella sua interezza. Giacomo Leopardi, anch’egli un forte saturnino, aveva munito di ben 2.187 note la sua opera "Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII" scritta all’età di 15 anni, e gli esempi potrebbero continuare…

Di facile interpretazione la congiunzione Sole/Mercurio in casa 12: l’intelligenza è senz’altro sveglia, ma la vita del soggetto è improntata alla chiusura e alla limitazione. Tradizionalmente, la casa in questione si riferisce "ai monasteri ed ai collegi retti dai religiosi, ai lunghi ricoveri in casa di cura, alle segregazioni cellulari, ai luoghi appartati, alla vita di ritiro" (1). Sementovsky-Kurilo afferma: "Occupata dal Sole annuncia una vita che trascorrerà in ambiente chiuso; o vi potrà essere rinuncia volontaria ai rapporti con il mondo esterno (clausura); […] rimane comunque il pericolo dell’allontanamento dalle strade movimentate della vita." (2)

A prima vista, sembra più difficile render conto di Marte in Ariete, strettamente congiunto all’Ascendente tra la fine dello stesso Ariete e l’inizio del Toro.

Sappiamo che questa posizione è indice di una natura impulsiva e spesso aggressiva, il che mal si concilia con quanto sappiamo circa il temperamento melanconico di Burton, che – come abbiamo letto sopra - ci confessa però di avere fortemente subito l’influsso del bellicoso pianeta.

Ed in effetti la marzialità dello scrittore si esprime interamente per mezzo della sua penna graffiante e dell’ironia al limite del sarcasmo. La penna è la spada con cui il melanconico pastore anglicano vibra terribili stoccate che non risparmiano nessuno.

Dei suoi colleghi scrittori, Burton dice: "[…] lardellano i loro magri libri col grasso delle opere degli altri. Inediti fures [ladri illetterati] ecc. Una colpa che tutti gli scrittori considerano tale, come faccio io ora, e di cui tuttavia sono colpevoli essi stessi, trium literarum homines (uomini di tre lettere, fur = ladro, n.d.A) sono tutti ladri. Rubacchiano dalle opere degli autori antichi per riempire i loro nuovi commenti; scrostano i letamai di Ennio e il pozzo di Democrito, come ho fatto io. Per cui succede «che non solo biblioteche e negozi sono pieni delle nostre putride cartacce, ma anche seggette e latrine», Scribunt carmina quae legunt cacantes." (Burton ha omesso la traduzione di questa frase, che potrebbe suonare all’incirca così: Scrivono versi che vengono letti mentre si defeca) (pag. 58,59).

Sui magistrati egli afferma: "Vedere un agnello giustiziato, un lupo pronunciare sentenze, latro [un rapinatore] chiamato in giudizio e fur [un ladro] seduto sul seggio; il giudice punire severamente gli altri e comportarsi peggio lui stesso, eundem furtum facere et punire, rapinam plectere, cuum sit ipse raptor [lo stesso uomo commettere il furto e punirlo, punire una rapina ed essere lui stesso un rapinatore!]. (pag. 102)

E che cosa pensare degli avvocati? "che ora si sono moltiplicati come tante cavallette, non i padri ma le pesti del paese, e in gran parte una genia di uomini superbi, malvagi, aridi, litigiosi crumenimulga natio ecc., un gruppo di spremiquattrini, una compagnia di parolai, di avvoltoi con la toga, qui ex injuria vivent et sanguine civium [che vivono derubando e uccidendo i loro concittadini], ladri e seminatori di discordie. Essi sono peggiori di qualsiasi predatore di strada auri accipitres, auri exterebronides, pecuniarum hamiolae, quadruplatores, curiae harpagones, fori tintinnabula, monstra hominum, mangones ecc.: si assumono l’incarico di fare la pace, mentre in verità sono i veri disturbatori della nostra pace, una compagnia di gente avida, senza religione, di esattori sanguisughe e opprimenti, (voglio dire i nostri comuni legulei famelici, rabulas forenses, che contemporaneamente amano e onorano le nostre buone leggi, i nostri degni avvocati, che sono tanti oracoli e piloti di buon governo)". (pag. 126)

Ce n’è poi in abbondanza anche per poeti, retori, oratori, innamorati, librai, cattolici e protestanti, politici.

Caro lettore, chiudo le mie note su questo autore straordinario sperando di esser riuscito a solleticare la tua curiosità e quindi a spingerti alla navigazione nel mare magnum dell’Anatomia della Malinconia. E con Roberto proclamo che: "Temo le critiche degli uomini di valore e sottopongo il frutto delle mie fatiche alla loro benevola attenzione, et linguas mancipiorum contemno [disprezzo i discorsi degli schiavi]."

NOTE
Angelo BRUNINI, L’avvenire non è un mistero, Roma, 1980, pag. 158
Nicola SEMENTOVSKY-KURILO, Carattere e destino, Hoepli, Milano, 1946, pag. 91

BIBLIOGRAFIA

- Robert BURTON, Anatomia della malinconia, tascabili Marsilio, Venezia, 1994. Prefazione di Jean Starobinski. Traduzione dall’inglese di Giovanna Franci; traduzione dal francese del saggio di Jean Starobinski di Francesco Fonte Basso.

Questo libro riporta purtroppo solo l’introduzione del testo originario.

E’ stata inoltre tradotta in italiano la terza parte del trattato (monca della sezione 4, Malinconia religiosa), sotto il titolo: Malinconia d’amore, Rizzoli, Milano, 1981. Prefazione di Attilio Brilli. Debbo purtroppo lamentare numerose imperfezioni e scorciamenti nella traduzione di Attilio Brilli e Franco Marucci.

Ove non diversamente specificato, le citazioni da me riportate si riferiscono tutte all’edizione Marsilio.

L’edizione inglese, in tre volumi, ha per titolo The Anatomy of Melancholy nella collana Everyman’s Library, J. M. Dent & Sons. Ltd., Londra, (1932) 1968, basato sulla VI edizione collazionata con la V. Introduzione di Holbrook Jackson.

- Angelo BRUNINI, L’avvenire non è un mistero, Roma, 1980 (edito in proprio)

- Henri J. GOUCHON, Dizionario di astrologia, SIAD, Milano, 1980

- Nicola SEMENTOVSKY-KURILO, Carattere e destino, Hoepli, Milano, 1946







I Quattro Elementi





Dal IV secolo a.C. viene definitivamente sancita la divisione dell'anno in quattro parti, conoscenza che rimane però ristretta ai circoli filosofici e scientifici. Le teorie su questa suddivisione tetradica si diffondono maggiormente a partire dal primo periodo ellenistico (c. 300-150 a.C.). Inizialmente tre, conosciute dall'età pre-omerica con il nome di Horai, le Stagioni divengono quattro e la speculazione scientifica le lega alla teoria dei quattro umori e dei quattro elementi del cosmo. Era infatti credenza comune che i quattro umori dell'uomo, sangue, bile nera, bile gialla e flegma imitassero i quattro elementi cosmologici Aria, Acqua, Fuoco e Aria e aumentassero e diminuissero nelle diverse stagioni e nelle diverse età. Il sangue imita l'aria, aumenta in primavera e domina nell'infanzia. La bile gialla imita il fuoco, aumenta in estate, domina nell'adolescenza. La bile nera imita la terra, aumenta in autunno, domina nella maturità. Il flegma imita l'acqua, aumenta in inverno, domina nella vecchiaia. La divisione in quattro degli elementi, delle stagioni e degli umori che compongono il corpo scaturisce, sin dall'antichità, dall'esigenza di ricercare elementi o caratteristiche primarie semplici alle quali potesse ricondursi la struttura complessa e apparentemente irrazionale sia del macrocosmo sia del microcosmo e dall'esigenza di trovare delle espressioni numeriche. Si aggiunga inoltre la teoria dell'armonia e della simmetria, cioè l'esigenza di una perfetta proporzione tra le parti che il pensiero greco fino a Plotino ha sempre considerato essenziale a ogni valore morale o estetico. L'originaria formulazione delle teorie dei quattro elementi, dei quattro umori, delle quattro stagioni e delle quattro parti del giorno trova la sua origine nella dottrina pitagorica, dove il culto dei numeri occupa un posto fondamentale e dove al numero quattro è conferito un valore altamente significativo. Il numero perfetto non è più il tre ma è il quattro a contenere la radice e la sorgente "dell'eterna natura". Alle divisioni tetradiche postulate dai pitagorici si aggiunge quella dei quattro umori: salute come equilibrio di diverse qualità e malattia come predominio di una sola. Con Empedocle il simbolismo pitagorico dei numeri viene trasformato in una dottrina degli elementi cosmici, egli cerca infatti di combinare le speculazioni degli antichi filosofi naturali, come Talete o Anassimene con la dottrina tetradica. I quattro elementi vengono abbinati a quattro specifiche entità cosmiche: il sole, la terra, il cielo e il mare. Questi elementi erano di egual valore e potenza, ma ognuno aveva un suo compito particolare e una sua specifica natura. Con il succedersi delle stagioni ognuno prendeva a turno il sopravvento, ed era il loro combinarsi, diverso in ogni singolo caso, che portava all'esistenza tutte le cose e determinava il carattere degli uomini. La combinazione perfetta era anzitutto quella in cui tutti gli elementi entrano in parti uguali; in secondo luogo era quella in cui le unità degli elementi che entravano nella combinazione non erano come quantità né troppo grandi né troppo pochi, e come qualità né troppo grezzi né troppo raffinati. Questa perfetta combinazione produceva l'uomo di più vasta intelligenza e di spirito più sottile. Intorno al 400 a.C. la teoria degli elementi, a cui si era unità quella di Alcmeone delle qualità, caldo, freddo, umido, secco, viene unita alla teoria dei quattro umori: a seconda delle stagioni i quattro umori, sempre presenti nel corpo umano, prendevano il sopravvento. Tutte queste nozioni e divisioni tetradiche, che hanno origine nella dottrina pitagorica, vengono riunite in un unico sistema: la teoria dei quattro elementi, delle quattro qualità, delle quattro stagioni e dei quattro umori. Come avviene nell'iconografia delle Stagioni, anche gli Elementi prendono in prestito le sembianze di alcune divinità a loro congeniali per caratteristiche comuni. Accade spesso, infatti, che Giunone sia scelta per rappresentare l'aria, Vulcano il fuoco, Nettuno l'acqua e Cerere la terra. Questa iconografia, con molte varianti gode di vasta fortuna per tutto il XVI secolo, in particolare nelle decorazioni parietali e, più tardi, anche in serie di quattro tele o tavole. A questa tipologia appartengono i singolari dipinti di Arcimboldo raffiguranti l'Aria , l'Acqua , la Terra ed il Fuoco , ma soprattutto i celeberrimi Elementi di Jan Brueghel, che divengono tra i quadri più ricercati dai collezionisti del XVII secolo.



Bibliografia:

Veldman, Ilja, M. "Seasons, Planets and temperaments in the work of Maerten van Heemskerck: cosmo-astrological allegory in sixteenth-century Netherlandish prints", Simiolus 11 (1980): 149-176.

Klibansky, Raymond. Panofsky, Erwin. Saxl, Fritz. Saturno e la melanconia. Studi di filosofia naturale, religione e arte. Torino:Einaudi, 1983.

Sears, E. The Ages of man. Medieval interpretations of the life cycle. Princeton (MA), 1986.





















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