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I kalash

Ultimo Aggiornamento: 02/10/2008 23:20
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I misteri del Kafiristan



I kalash abitano in una remota regione del nord del Pakistan da centinaia d'anni.
E hanno trovato la salvezza nell'isolamento assoluto. Un reportage dell'Observer - Gran Bretagna

CHITRAL, 28 APRILE 1996

Nell'Uomo che volle farsi re, Rudyard Kipling descrive il remoto regno del Kafiristan come una "massa di montagne, picchi e ghiacciai che nessun inglese ha mai attraversato". Per quanta riguarda i suoi abitanti, lo scrittore non usa mezzi termini: "Sono dei veri bruti". In realtà, Kipling non visitò mai il Kafiristan ma, come molti del suoi contemporanei vittoriani, subì il fascino di questa terra quasi mitica.

Secondo il folklore, i kafir discendono dalle truppe di Alessandro Magno (una razza di guerrieri dai capelli biondi e gli occhi azzurri) e sono spesso trapelate da queste valli storie di sacrifici con spargimento di sangue, effigi di legno, promiscuità sessuale e orge a base di vino (non c'è motto da meravigliarsi perciò se la traduzione di Kafiristan sarebbe "terra degli infedeli").

La storia di questo posto eccezionale è sicuramente materia di leggende, ma il popolo dei kafir è una realtà, seppur isolata, tra le montagne dell'Hindu Kush alla frontiera nordoccidentale tra Pakistan e Afghanistan.

Solo avvicinarsi al Kafiristan è un'avventura. II viaggio comincia nella città pachistana di Peshawar, uno degli ultimi bazar orientali realmente esotici, dove molti degli abitanti del luogo - pathan e ex mujahiddin - girano ancora armati fino ai denti. II Passo Khyber non è molto lontano, ma per raggiungere il Kafiristan bisogna attraversare il lungo Passo Malakand che porta a Chitral, proprio al confine con l'Afghanistan.

Minuscoli aeroplani collegano Peshawar a Chitral, ma spesso i voli vengono annullati a causa del maltempo e trovarvi pasto non è mai facile. Comunque, il terrificante attraversamento delle montagne in jeep che richiede dodici ore è un'esperienza che non si dimentica, soprattutto il momento in cui si raggiunge il punto più alto,a circa tremila metri. Da lì la vista è sconvolgente e ci si può scaldare con una tazza di tè al latte dolce e bollente nel fumoso chiosco al bordo della strada.

Chitral è una vivace città di frontiera con una bellissima moschea bianca e uno dei caratteristici campi di polo che si trovano lungo tutta la frontiera nordoccidentale. C'erano molte basi dei mujahiddin da queste parti e l'influenza del fondamentalismo islamico è ancora forte. Eppure, a sole due ore di macchina - anche se su un sentiero di montagna teoricamente inaccessibile alle jeep perché disseminato di pietre e buche - in questo oceano dell'Islam c'è una misteriosa, remota isola degli "infedeli".

La strada che parte da Chitral e valica le montagne di granito dell'Hindu Kush porta attraverso un paesaggio aspro e desolato, e sale a zigzag fino a 2.500 metri prima di ridiscendere nelle valli del Kafiristan. Il contrasto non potrebbe essere più forte. È come se si entrasse in un mondo completamente diverso: alte montagne incappucciate di neve e coperte di pini e cedri; fertili valli disseminate di dorati campi di grano e verdi prati lussureggianti; torrenti impetuosi il cui corso è interrotto solo da antichi mulini ad acqua.

La visione è semplicemente idilliaca. Ci sono orti pieni di alberi di noci; meli, albicocchi e gelsi. Ci sono vigneti selvatici e alberi d'olivo. Branchi di capre e di pecore vagano liberamente, sorvegliati da ragazze vestite in modo strano che suonano flauti e cornamuse: non c'è da meravigliarsi se scoprendo questa terra isolata i primi vittoriani hanno pensato di aver trovato una specie di Shangri-La.

Il vero nome dei suoi abitanti è kalash, e probabilmente oggi sono meno di quattromila. Anche se un tempo dominavano una vasta regione, adesso i loro villaggi sono concentrati in tre valli soltanto: Bumburet, Rumbur e Birir. Ogni tanto si vede qualche bambino biondo, ma nessuno ne conosce esattamente l'origine. La cosa sicura, però, è che la posizione cosi remota del paese ha permesso che la sua vita non venisse disturbata dai musulmani che invasero il subcontinente indiano nel Decimo secolo, dall'esercito di Tamerlano o da quelli degli imperatori Mogul. Neanche l'impero britannico è riuscito a disturbarlo, finché nel 1893 non fu firmato un fatale trattato con la nazione afgana per stabilire una frontiera.

Purtroppo per i kalash, quella frontiera passava proprio attraverso il Kafiristan e quelli che erano dalla parte afgana si ritrovarono spazzati via o convertiti con la forza all'Islam dall'"Emiro di ferro di Kabul", Abdur Rahman. La loro unica consolazione fu che questo nuovo territorio di fedeli fu denominato Nuristan, Terra della Luce.

In quest'ultimo secolo i pochi kalash rimasti nel Kafiristan sono riusciti in qualche modo a sopravvivere. Tradizioni, costumi e riti religiosi non sono più radicati come prima, ma continuano ancora a vivere abbastanza separati dal resto del mondo. Le regole sono rigide e se un kalash diventa musulmano deve andarsene.

Anche se il governo sta aprendo delle scuole, la gente cerca di non mandarci i bambini per paura che vengano convertiti. Il Pakistan è un paese di quasi cento milioni di musulmani e sembra che non abbia ancora deciso se questi "kafir" debbano semplicemente essere convertiti all'islamismo - con incentivi o minacce - oppure conservati come attrazione turistica, diffondendo depliant di viaggio colorati che li descrivono come una "tribù pagana primitiva". Nelle valli ci sono alcuni alberghi, ma non aspettatevi che un pasto come il Kalash Hilton vi garantisca comodità essenziali come l'acqua corrente, i bagni o l'elettricità. I locali vivono in solide case di legno a due piani costruite sulle tenrazze che tagliano i ripidi fianchi delle colline. I muri esterni e le porte sono spesso ricoperti di elaborati intagli animisti e gli interni - se mai doveste essere invitati a bere una tazza di tè di noci - sono bui e fumosi, con il focolare proprio al centro della stanza e solo una minuscola apertura per far uscire il fumo. Il piano terra è concepito per servire da stalla per il bestiame, ma le capre spesso si aggirano anche nella zona destinata ad abitazione. Questi animali sono quasi sacri per i kalash, e vengono sacrificati durante le festività e le cerimonie religiose, mentre il nero che spesso le donne usano per truccarsi non è altro che polvere di corno di capra.

Le donne non hanno vita facile nella società kalash. Fanno la maggior parte del lavoro dei campi, e durante le mestruazioni e la gravidanza devono allontanarsi dal villaggio e rifugiarsi in una costruzione speciale nota come bashali. Nonostante ciò, sempre vestite nei costumi tradizionali, sono proprio le donne a rimanere più attaccate allo stile di vita unico della comunità.

Delle tre valli, Bumburet è la più pittoresca, ma Rumbur e Birir ricevono meno visitatori e sono riuscite a preservare meglio le tradizioni dei kalash. Anche se ci sono delle strade molto essenziali che collegano le valli tra loro, questa è una terra da trekking. Si può affittare una guida kalash e se siete fortunati forse deciderà di mostrarvi un luogo religioso segreto tra le montagne - ma preparatevi a sentirvi dire che alle donne non è permesso visitare certi posti.

La cosa assolutamente da non perdere è il cimitero. I kalash non seppelliscono i loro morti: mettono i corpi in una bara che viene lasciata aperta nel cimitero. Tradizionalmente viene posta accanto alla bara una grande effige in legno del defunto, ma purtroppo vengono quasi tutte rubate a vendute a musei e collezionisti. È comunque un'esperienza passeggiare in un cimitero circondati da scheletri e indumenti in decomposizione.

Questo rituale è solo la punta dell'iceberg della religione dei kalash e nessuno ne sa motto di più oggi di quanto ne sapessero le prime spedizioni che arrivarono qui un secola fa. Un amministratore britannico, sir George Scott Robertson, scriveva: "La religione kafir è una forma di idolatria con un miscuglio di culto degli antenati e del fuoco. Gli dei e le dee sono numerosi". Le guide di oggi hanno poco da aggiungere: i kalash mantengono ancona segrete le loro complesse cerimonie.

Visitando queste strane valli è troppo facile assumere un atteggiamento critico e politically correct: manca l'istruzione, i servizi medici sono pochi, non c'è elettricità, le condizioni sanitarie e l'alimentazione lasciano a desiderare. Ma guardate come le tribù del Triangolo d'Oro tailandese sono state sconvolte dal turismo di massa. I kalash sembrano contenti di limitare i contatti con il mondo esterno e tenere per sè i loro rituali e le loro convinzioni - in un isolamento che ha permesso a questo popolo di sopravvivere finora. (B. T.)


Questo articolo è apparso su Life, il magazine dell'Observer del 28 aprile 1996 a pagina 18. il titolo originale era "Island of the infidel".

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02/10/2008 23:17
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PAKISTAN: UNA GIORNATA FRA I KALASH


Siamo nell’estremo nord ovest del Pakistan. Partiti da Chitral di buon mattino, dopo un viaggio di circa due ore in jeep e un breve ed agevole trekking, arriviamo a Bumburet, uno dei tre villaggi, gli altri sono Birer e Rumbur, dove vivono i Kalash.
Il villaggio è fatto di case unifamiliari in legno, senza finestre, alcune anche su palafitte, sparse un po’ dovunque fra gli alberi. Il paese è attraversato da un torrente d’acqua fresca e limpida.
Il paesaggio non ha nulla di particolare. Qui di particolare c’è solo la gente: ospitale, gioiosa con carnagione chiara, capelli castani se non biondi, occhi azzurri. Forse è vero quello che si afferma che essi sono gli “eredi di Alessandro il Macedone”, i discendenti cioè di quei soldati che, al termine della lunga campagna militare durata otto anni e mezzo, che li vide sballottati per ventimila chilometri dalla Macedonia all’Egitto, da Samarcanda alla Battriana (regione settentrionale dell’odierno Afghanistan) fino alla valle dell’Indo, decisero di non intraprendere il viaggio di ritorno decretato dall’oracolo. Erano soldati stanchi, esausti, molti dei quali con mogli, disertori, con l’aggiunta di un’intera divisione data per dispersa.

Ci fermiamo all’ombra di un grosso albero in riva al torrente. A Birer siamo entrati nelle case della gente. Qua, se avremo pazienza, saranno loro a cercare noi e qualcosa succederà. Arrivano infatti dopo un poco alla spicciolata. Sono tutte ragazze giovani e graziose. Alcune indossano il tradizionale copricapo di feltro nero che cade sulla schiena, completamente ornato di conchiglie a forma di chicchi di caffè (cauri), campanellini, bottoni di madreperla, coralli, borchie. Siedono con noi, parlano, ridono, ammiccano. Chissà quanti commenti su di noi non certamente lusinghieri. Interrompiamo il loro chiacchiericcio offrendo un anellino a una delle ragazze. L’osservano, mostrano di gradirlo e così inizia …il gioco del baratto: io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Per loro poi non è tanto un gioco, giacché praticano giornalmente il baratto come mezzo di scambio. E così: un anello con un braccialino, un fermaglio con un cauro, una biro con una borchia, dei biscotti con dei.. fichi, improvvisamente materializzatisi: saporiti, strani, piccolissimi come delle piccolissime olive. Una ragazza ci mostra la sorellina di pochi mesi, molto ma molto graziosa. Capiremo dopo un po’, con l’universale linguaggio dei gesti, incuriositi dal modo amorevole con il quale se la coccola, che invece è la figlia. Cosi giovane e già sposata! E tuo marito? E’ fuori al pascolo. Giusto: Kalash significa uomo ma anche pastore.

S’avvicinano degli uomini. Non sono Kalash. Ci danno il benvenuto. Uno di loro, un giornalista, con l’aria di volerci compiacere, ci racconta che il popolo kalash , è proprio vero!, discende da Alessandro il Macedone. Fa parte cioè della nostra gente, e ciò dovrebbe inorgoglirci. Ci fingiamo meravigliati per non deluderlo e allora lui, sempre per compiacerci, ci elargisce un interessante fiume di notizie. I Kalash, ridotti ormai a meno di millecinquecento anime, sono chiamati Kafiri, cioè pagani, dal mondo musulmano che li circonda, e, aggiungo io, che certamente li assedia. Ciò perché essi sono politeisti, idolatri. Le loro divinità, Khodai, creatore dell’universo, Balmain e altri, parlano attraverso emissari (dehar) capaci di cadere in trance. I riti religiosi sono pagani, legati agli eventi naturali e al succedersi delle stagioni. I Kafiri non sotterrano i loro morti ma li lasciano nelle bare scoperte, in aree cimiteriali e dedicano loro statue lignee. Le donne sono libere.

Ballano, bevono, conversano disinvoltamente con uomini anche se estranei e non indossano il chador. Non partoriscono nelle loro case ma nella “casa della maternità” perché impure. Dopo alcuni giorni dal parto rientrano in famiglia dopo essersi immerse nel torrente, anche se gelido, per purificarsi. Esse contano molto nella società kafira per essere presenti in un rapporto di tre a dieci. Sulla via del ritorno chiediamo alle nostre compagne di viaggio se, per contare di più nella vita, non preferiscano essere lasciate nel Kafiristan.
Non ci hanno rivolto la parola per tre giorni.
www.nbts.it/diario_di_viaggio/kalash.htm

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02/10/2008 23:18
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Tra i Kalash, gli ultimi infedeli

paganesimo.blogspot.com/2008/01/tra-i-kalash-gli-ultimi-infed...

Ritorno nella mitica arcadia d'oriente

Sulle montagne tra il Pakistan e l'Afghanistan, vive un popolo le cui origini hanno radici nella mitologia greca. Gli dei e l'amore scandiscono le vicende di questa etnia, isola pagana nel mondo islamico, che attrasse negli anni sessanta i giovani giramondo: vent'anni dopo il nostro fotografo l'ha rivisitata.

C’è una misteriosa isola etnica, nel cuore del continente asiatico, che per noi europei costituisce da sempre una specie di mito. L’antico Kafiristan rappresenta infatti l’ebbrezza, l’amore, la poesia e tutti i sentimenti pagani che abbiamo ereditato dalla civiltà del dio Pan. Questa mitica terra alle pendici della imponente catena montuosa dell’Hindukush, popolata dalle genti kalash, doveva esistere, necessariamente. Non fosse altro che per il nostro etnocentrismo, teso a proiettare schemi e valori che ci appartengono anche sulle culture più lontane. E a interpretarne i tratti distintivi, alla luce della nostra storia. Anche se le “prove” sono solo suggestioni, e il fondamento di tutto è una leggenda. Vuole dunque la leggenda che il dio greco Dioniso, durante il suo viaggio nelle Indie accompagnato da un corteo di festose baccanti e di silenti (spiriti dei boschi e della natura selvaggia immaginati in forma umana e con orecchie, coda e zampe equine) abbia posto le basi di un insediamento, presto divenuto noto a popoli vicini e viaggiatori per la sua gestione festaiola e orgiastica. Si dice che Alessandro Magno, nel corso della sua grandiosa spedizione in Oriente (IV secolo avanti Cristo), fosse passato da questo avamposto ellenico, e che ebbe a pentirsene. Perché il fascino di quell’isola di grecità, con gli effluvi di mosto che ne emanavano, catturò non pochi suoi soldati, che disertarono. E qui la leggenda mette radici in terra, anche se la pianta originale rimane pura fantasia. Si comincia così a favoleggiare di una terra d’Oriente abitata da gente bionda, di carnagione chiara, con occhi cerulei, che passa il tempo a bere e a cantare, e che sacrifica giovani maschi di capra a un ventaglio di dèi assetati di sangue. Con questa favola in mente, partono i primi antropologi armati di strumenti craniometrici, per misurare le caratteristiche fisiche di questi nostri cugini levantini. Partono scrittori per ambientare, tra quelle mitiche valli, racconti come “L’uomo che voleva essere re” di Rudyard Kipling. Partono cercatori di verità come Georges I. Gurdijeff, alla ricerca di personaggi illuminati (da leggere i suoi “Incontri con uomini straordinari”, pubblicato da Adelphi nel 1987). Partono, verso la fine degli anni Sessanta, anche gli hippy. Sono giovani un po’ stufi di seguire le tracce indiane già battute dalla “generazione bruciata” americana, e che desiderano invece vivere una utopia libertaria, che li conduca a scoprire le loro radici profonde. L’orientalista Fosco Maraini, anch’egli vittima di una cotta per i kalash, che visitò nel 1959, al ritorno da una spedizione del Club alpino italiano sul Sarahgrar dell’Hindukush (7.349 metri), oggi commenta: “La presenza del tralcio sacro a Dioniso dava subito un carattere sottilmente mitologico alla valle. Una fanciulla, appoggiata a un muretto di sassi, stava suonando un flauto. Non si scompose per nulla al nostro passaggio, e continuò a riempire l’aria di una musichina lene, commento perfetto a quanto vedevamo intorno a noi. Pareva impossibile non ci scappasse la parola arcadico’. Tanto infatti risultò adatta al luogo e alla gente, che la usammo, a proposito e a sproposito, per due o tre giorni: finché non ci venne a noia. ‘Hai visto l’arcadico vechio?’. ‘Ecco le arcadiche fanciulle!’. ‘Dov’è l’arcadica capanna?’. ‘Buttami l’arcadica pentola”’. Ma, a parte le idealizzazioni, qual è la vera storia dei kalash? I linguisti hanno individuato nel loro idioma, il kalashwar, preponderanti influenze sanscrite. I paletnologi li definiscono indo-ariani. Gli storici delle religioni vedono nel loro pantheon indiscutibili affinità con gli dèi vedici. Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese. Di greco, insomma, nemmeno l’ombra di un naso.

Un popolo irriducibile.

Purtroppo, la storia dei kalash coincide con l’inizio dei loro guai. A battezzarli kafiri (in arabo, “infedeli”) furono proprio i seguaci di Maometto che, nella loro gigantesca campagna di islamizzazione partita nel VII secolo dopo Cristo, giunsero ad accerchiare anche la patria dei kalash, chiamata Tsyam. Quegli “infedeli” si dimostrarono, però, degli irriducibili. Uguale insuccesso toccò, verso l’anno Mille, al fondatore del ramo turco dei Ghaznavidi, Mahmud, il sultano conquistatore dell’India. E neppure i diecimila cavalieri dell’esercito di Tamerlano, il celebre discendente di Gengis Khan, ebbero ragione, quattro secoli dopo, delle roccheforti dei ribelli. I quali, tuttavia, di fronte all’incalzare di nuovi invasori, si videro costretti ad abbandonare il Tsyam (che oggi sarebbe nell’Afghanistan) per ripiegare sempre più a settentrione, verso le aspre vallate montane del Pakistan nord-occidentale, dove a tutt’oggi risiedono. Il colpo di grazia ai kafiri afghani lo inferse, nel 1896, l’emiro Kabul Abdur Rahman che, con l’avallo del governo di Sua Maestà britannica perpetrò una vera strage. Ai pochi sopravvissuti lasciò la scelta: convertirsi all’Islam oppure morire. Persino il nome del Kafiristan venne cancellato dalle carte geografiche. Rahman lo cambiò in Nuristan, cioè “il paese della luce”. Naturalmente, la luce (nur, in arabo) della verità coranica. L’assedio musulmano delle ultime valli kafire in Pakistan (Bumburet Rumbur e Birir) non è mai cessato. L’Islam preme ancora. Ma nonostante le difficoltà nel mantenere la propria identità etnica nel più completo isolamento, i kalash resistono. Su molteplici fronti. In un contesto culturale dove l’ebbrezza viene ricercata nei prodotti della canapa indiana, tra i kalash continua il consumo rituale del vino; anche perché, secondo un loro mito, la prima vigna nacque dalla bocca spalancata di un potente sciamano. Tra gente che relega, vela e reprime le proprie donne, resistono i loro costumi sessuali, più rilassati e più gioiosi, che si manifestano soprattutto durante le feste, ben oltre il limite della oscenità. In un mondo clamorosamente devoto ad Allah, resiste il loro “folle” politeismo, animato da divinità maschili e femminili, da fate con tre seni, da splendidi protettori delle vette, da numi solari e da cavalli soprannaturali. Minacciate da una intollerante tradizione iconoclasta, resistono le loro statue funerarie, i gandau, benché decimate. Infine, tra le moschee che avanzano in un dedalo di vallette, resiste la sacra jestak-han: al contempo tempio, macello e municipio. Si tratta della sede di Jestak, una dea Giunone che non disdegna ecatombi di capretti durante il Chaumos, la cerimonia kalash che si celebra in occasione del solstizio di inverno. Delle tre feste tradizionali dell’anno kalash (Joshi in primavera, Prun in autunno e Chaumos in inverno), l’ultima è forse la più importante, perché al rigore della stagione fredda si affidano i più ferventi aneliti e le preghiere più sentite, nella speranza che la morte bianca celi la consueta promessa di rigenerazione. Il Chaumos dura circa due settimane, ed è concepito come una serie di atti di purificazione e di rituali propiziatori alla visita del grande dio della generazione Balumain, che avviene all’alba della notte più lunga dell’anno.

Una guerra di parole.

Il calendario cerimoniale del Chaumos è ben definito. Il primo giorno si accendono ovunque fuochi con legna di ginepro, si bruciano le vecchie ceste usate e si formano cortei di giovanotti che “trottano” e nitriscono, per attirare il dio, che si presenta sempre a cavallo. Fin dal principio, esplode l’oscenità, con tutta la sua carica vitale e, dicono i kalash, persino medicinale: “Più sconce sono le nostre parole e più accorate le nostre preghiere, più guadagneremo in salute e in fortuna”. Il secondo giorno le donne si lavano i capelli e rinnovano le kupas, le splendide cuffie adorne di conchiglie e di perline colorate. Nella stalla si cuoce il pane. Il terzo è il giorno riservato agli insulti, veramente terribili, tra le ragazze dei diversi villaggi. È una guerra di parole che dura fino a notte, alla quale assistono i giovani maschi, pronti ad apprezzare la fantasia di questa o di quella. Poi viene il giorno della cottura dei fagioli, quello della confezione di piccole capre con la mollica di pane e della ridipintura dei fregi che adornano la jestak-han. Segue il giorno del ritorno dei morti (cui si deve offrire del cibo) che chiude la prima fase della festa. Cominciano allora sette giorni di astinenza, di abluzioni e di purificazioni per tutti, uomini, donne e bambini, durante i quali qualsiasi estraneo deve lasciare le valli kalash. Infine, arriva il giorno del grande sacrificio: decine di caproni vengono macellati ritualmente davanti al mahandeo, l’altare del “grande dio”, dalle cui pietre svettano quattro teste di cavallo, scolpite nel legno. E a questo punto che tra i giovani si possono osservare i “tremori”, interpretati come segnali di una possessione che rivela attitudini sciamaniche. L’addio a Balumain verrà celebrato da un corteo di donne ciascuna con una penna di pavone sulla kupas. In conformità all’antico pensiero védico, il pavone è l’animale dell’immortalità: oltre a essere molto prolifico, l’uccello rinnova ogni anno lo splendore dei suoi “occhi” cangianti sulla ruota cosmica della magnifica coda.



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02/10/2008 23:20
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