Anoressia

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00martedì 11 marzo 2008 18:27
Quando il problema è il rifiuto del cibo, la forte volontà di perdere peso, un’immagine di sé distorta, la diagnosi è di tipo psichiatrico e va nella direzione dei disturbi alimentari, in particolare dell’anoressia nervosa. Un disturbo molto grave che colpisce prevalentemente le donne, ha un elevato tasso di mortalità e il più alto tasso di suicidio tra le malattie psichiatriche. E, purtroppo, è anche molto resistente al trattamento che ha come obiettivo il recupero del peso corporeo, ma in realtà deve far fronte a tutti gli aspetti che caratterizzano il disturbo. Ragion per cui lo sforzo può essere nutrizionale, psicologico o farmacologico, anche perché spesso coesistono psicopatologie come depressione, disordini ossessivi compulsivi o dovuti all’ansia. La psicoterapia, infatti, resta uno degli elementi fondamentali e regolarmente presente nel trattamento, che negli adolescenti è più orientata al coinvolgimento familiare, mentre negli adulti si avvale della terapia cognitivo comportamentale. Anche la psicofarmacologia è una strategia piuttosto comune, per quanto non ci siano basi scientifiche forti a supporto e la letteratura è modesta.

Un insuccesso atteso e confermato
Ci sono piccoli studi che hanno sperimentato l’efficacia del litio, di vari antipsicotici, di farmaci ad azione antiserotoninergica (ciproeptadina), antidepressivi triciclici, THC (tetraidrocannabinoidi), ma con risultati deludenti. Recentemente l’attenzione è stata focalizzata sugli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) sia per il trattamento acuto dell’anoressia nervosa, sia per la prevenzione di ricadute. Ma gli studi hanno non sono riusciti a dimostrare benefici clinici. Ma i fallimenti provengono da studi di modeste dimensioni, che accendono il dubbio sulla reale inefficacia di tali farmaci, e poco chiari: nel caso della prevenzione delle ricadute i risultati positivi pesavano tanto quanto quelli negativi. Tuttavia, la conferma dell’inefficacia è stata recentemente evidenziata da un studio su 93 pazienti, a detta degli autori il più ampio finora allestito, per lo meno sulla possibilità di evitare ricadute. Le pazienti, di età compresa tra 16 e 45 anni, infatti, entravano nello studio dopo aver raggiunto un indice di massa corporea (BMI) di almeno 19 e venivano avviate alla somministrazione di fluoxetina (un SSRI) o di un placebo, per 12 mesi unitamente a un sostegno terapeutico cognitivo comportamentale. La ricaduta è stata intesa come la perdita di peso fino a un indice di massa corporea inferiore a 16,5 o la comparsa di complicanze mediche o di altri disordini psichiatrici gravi o del rischio incombente di suicidio. Ebbene la risposta al farmaco misurata come tempo trascorso fino alla ricaduta o come percentuale di pazienti che riuscivano a mantenere l’BMI almeno a 18,5, non differiva da quelle ottenute con il placebo. E anche la sospensione della terapia per fallimento non differiva tra i due gruppi. Forse, l’unico esito positivo ottenuto con la fluoxetina era la riduzione significativa dei sintomi dell’ansia, ma escluso questo aspetto è evidente che il farmaco ha un ruolo limitato.

Tempistica da rivedere?
In realtà, l’uso della fluoxetina nei disturbi dell’alimentazione trova evidenze a sostegno per la bulimia nervosa, ed è stato ampiamente dimostrato il suo ruolo nei disturbi ossessivi compulsivi, al punto di ricevere l’indicazione dalla Food and Drug Administration. Era ragionevole quindi sperare che potesse essere utile anche per l’anoressia nervosa, dal momento che ha una stretta relazione con gli altri due disturbi psichiatrici. Gli autori, tuttavia, non demordono e ipotizzano che la fluoxetina potrebbe avere effetti diversi se somministrato più avanti nella terapia di recupero del peso. Non escludendo quindi un potenziale ruolo degli antidepressivi in fasi più avanzate del percorso terapeutico, ma per ora tutto da dimostrare.


Fonte
Walsh BT et al. Fluoxetine after weight restoration in anorexia nervosa: a randomized controlled trial. JAMA. 2006 Jun 14;295(22):2605-12
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