Anima in Platone

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00martedì 11 marzo 2008 19:14


Vi inoltro quanto ho trovato sull'Anima nel pensiero platonico.Cosa ne pensate?

La struttura "organica" dello stato aveva permesso a Platone di operare un parallelismo tra lo stato e l'anima, come abbiamo visto nel paragrafo 5: alle tre classi di cittadini corrispondevano tre specie di anima, razionale, irascibile, appetitiva, ed il predominio spettava alla prima. Questa "geometria" politica e sociale doveva avere il suo corrispettivo in una "geometria" fisiologica ed etica: nel Timeo, la parte più nobile del nostro corpo, la testa, e la sede della parte più divina dell'uomo; l'anima delle passioni e situata più giù, nel torace, al di sopra del diaframma; l'anima della nutrizione, ben separata dalle altre due, è posta invece nel ventre, al di sotto del diaframma. Come dunque lo stato, per essere ottimo, esige che ciascuna delle classi esegua bene le sue funzioni senza mai prevaricane, così l'uomo, per essere buono, deve esercitare tutte e tre le funzioni della sua anima, in un rapporto armonico e proporzionato, il quale soltanto permette la vita ordinata del singolo individuo:

Come abbiamo detto più volte che in noi furono collocate tre specie d'anima in tre luoghi diversi, ciascuna con movimenti suoi propri, così anche ora si deve dire nel modo più breve che quella di esse, che rimane inattiva e lascia riposare i suoi movimenti, diviene necessariamente la più debole, e quella che invece si esercita, la più forte: e perciò si deve badare che ci sia proporzione fra i loro movimenti. E della specie più alta dell'anima umana convien pensare che questa parte, della quale diciamo che dimora nella sommità del nostro corpo, dio la abbia data a ciascuno come un genio tutelare, e che essa ci solleva da terra alla nostra parentela nel cielo, come piante non terrene, ma celesti... Ora, la cura di tutte le parti è per tutti una sola, dare a ciascuna parte alimenti e movimenti appropriati. E della nostra parte divina sono movimenti affini i pensieri e le circolazioni dell'universo. E' dunque necessario che ciascuno segua quelli, e i circoli guasti in sul nascere nella nostra testa li corregga imparando le armonie e le circolazioni dell'universo, e renda simile, secondo la sua antica natura, il contemplante al contemplato, e fattolo simile raggiunga il fine di quest'ottima vita, che gli dei hanno proposto agli uomini per il tempo presente e per l'avvenire. (Timeo, 89 e 90 d)

L'etica platonica è qui chiaramente delineata; è un'etica che si collega da un lato alla politica, dall'altro alla costituzione stessa dell'universo: operare bene significa raggiungere il proprio equilibrio e mantenere degnamente la propria posizione di uomo nel cosmo, quella posizione che è propria dell'essere più vicino al dio, nello sforzo continuo di rendere simile il contemplante - l'uomo - al contemplato - l'universo, il dio.
L'anima, parte divina dell'uomo: è questa un'altra tesi platonica che rompeva chiaramente con la tradizione propria dei presocratici. Se per questi l'uomo costituiva una "unità" indissolubile di mente e corpo, di anima e corpo, tale che non poteva concepirsi l'un termine separatamente dall'altro, per Platone invece l'anima è ben distinta dal corpo, vive in esso momentaneamente la sua avventura umana, ma aspira a separarsi da esso ed a ricongiungersi con gli elementi a lei simili. Se per nessuno dei presocratici - da Parmenide a Empedocle, da Anassagora a Democrito ai sofisti - era possibile parlare di un'anima "separata" dal corpo ed immortale, Platone, riprendendo le antiche dottrine religiose e, in parte, la tradizione pitagorica, afferma decisamente l'estraneità dell'anima al mondo delle cose che nascono e muoiono. La "novità" di Platone consiste invece nell'aver fondato questa vecchia tesi su delle nuove argomentazioni filosofiche, costruendo una teoria originale e complessa, che viene comunemente chiamata "dottrina delle idee". Abbiamo visto più volte che l'eredità socratica più importante - nell'interpretazione di Platone - consisteva nel mirare, al di là delle apparenze e del mutevole, al "ciò che è". V'e un passo del Simposio in cui si descrive efficacemente questa distinzione tra il "ciò che è", che Platone chiama eidos, o idea, e le "cose" che somigliano a quell'idea, che prendono il nome da quell'idea, che si qualificano per la loro partecipazione a quell'idea, ma che tuttavia restano sempre ben distinte e separate da quell'idea. Nel passo è descritta anche l'iniziazione che il maestro compie nei confronti dell'allievo: si parla in particolare dell'idea del bello in sé, ma il discorso vale per il giusto, il bene, il saggio, insomma per qualunque altra idea.


Sarebbe insensato credere che la bellezza non sia una e la stessa in tutti i corpi. Convinto di ciò [l'allievo] deve diventare amoroso di tutti i bei corpi... Dopo di ciò giunga a considerare che la bellezza delle anime è più preziosa di quella del corpo, per essere poi spinto a contemplare la bellezza nelle attività umane e nelle leggi. Ma dopo le attività umane, l'iniziatore lo deve condurre alle vane scienze perché veda ancora la loro bellezza e, ormai fatto l'occhio a una bellezza così vasta, non sia più affezionato a un solo aspetto della bellezza, ma, rivolto a contemplare il vasto mare della bellezza, possa scorgere una scienza unica, che è la scienza della bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s'accresce né diminuisce, che non è bella per un verso e brutta per l'altro, né ora si e ora no; né bella o brutta secondo certi rapporti; né bella qui e brutta là, né come se fosse bella per alcuni e brutta per altri: della bellezza come essa è per sé e con sé, eternamente univoca, mentre tutte le altre bellezze partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non s'arricchisce né scema, ma rimane intoccata... Questo è il momento della vita, o mai più altro, degno di vita per l'uomo, quando contempli la bellezza in sé. (Simposio 210 b -- 211 d)

La dottrina platonica delle idee è la risposta socratica di Platone a Parmenide, o meglio e l'«interpretazione corretta» di Parmenide che ci offre Platone: il "ciò che è" di Parmenide, che per l'Eleata era il cosmo, il tutto, visto nella sua struttura "statica" e perciò studiato con metodo matematico, diviene per Platone il "che cosa è", l'oggetto invariabile, costante, eterno, della definizione, di tutte le nostre definizioni: diviene l'idea sempre uguale a se stessa. Le "cose che sono" di Parmenide, che per l'Eleata erano sempre il cosmo, ma visto nella sua struttura "dinamica" e perciò studiate con metodo fisico, divengono per Platone le infinite cose in continuo mutamento (gli uomini, i cavalli, le vesti, oppure le cose belle, le cose giuste, le cose buone, e così via), i cui rapporti cambiano continuamente e che perciò non possono essere fissate in una definizione univoca. La distinzione tra questi due tipi di realtà, una stabile, sempre identica a se stessa - e perciò percepibile solo col pensiero, l'altra in continuo mutamento - e perciò percepibile con i sensi, è chiaramente delineata nel Fedone:

La realtà dell'essere, che è ciò di cui interrogando e rispondendo siamo soliti dare la definizione, permane invariabilmente costante o è variabile? L'eguale in sé, il bello in sé, e insomma ogni data cosa che è in sé, l'ente, c'è mai caso che patisca alcuna mutazione, sia pure in qualunque modo? oppure ciascuna di queste cose che è in sé, che è uniforme in quanto si consideri esclusivamente in sé, permane invariabilmente costante? - Necessariamente, o Socrate, permane invariabilmente costante. E dimmi: che pensi tu delle infinite cose, come uomini, cavalli, vesti, e così via di tutte le altre quali esse siano o uguali o belle, e insomma di tutte quante alle quali diamo lo stesso nome che alle cose in sé? Permangono esse costanti, oppure tutto il contrario che a quelle, non si dà mai che conservino lo stesso rapporto, e insomma non siano mai per nessun modo costanti? - Vero anche questo, disse: non sono mai allo stesso modo. - Bene: e tu codeste cose puoi toccarle, puoi vederle, puoi percepirle con gli altri sensi; ma quelle che permangono costanti non c'è altro mezzo col quale tu le possa apprendere se non con il pensiero e con il ragionamento. (Fedone 78 d - 79 a)

Questo dualismo tra mondo delle idee, un mondo invariabile e costante, e mondo delle cose, mutevole, che Platone teorizza nella fase centrale della sua ricerca, quella che coincide con la fondazione dell'Accademia (387 a.C.) e grosso modo con i primi 20 anni della sua attività (387-367), è stato variamente interpretato fin dall'antichità, ed ha avuto un peso ed un influenza notevolissimi su tutto lo sviluppo successivo del pensiero filosofico e scientifico, fino ai nostri giorni. Non possiamo in questa sede nemmeno accennare a questa "storia del platonismo"; basterà qui dire che - nonostante Platone usi a volte espressioni come "mondo terrestre" e "mondo celeste" o "iperuranio", "questo mondo qui" e "il mondo di là" - non si deve pensare necessariamente ad una separazione "materiale", fisica, tra i due mondi, uno in basso ed uno in alto, e collocare qui giù le cose e lassù le idee. La separazione è si netta, ma si determina tra il mondo di ciò che può essere colto solo col puro pensiero razionale, ed il mondo di ciò che può essere colto attraverso le nostre sensazioni: lo iato profondo è quindi tra ragione ed esperienza, tra pensiero e sensi. Da questo punto di vista, la risposta di Platone è si in contrasto con quella di presocratici, che non avevano contrapposto ragione e sensi, ma è in fondo una risposta alla stessa domanda: come è possibile fare un discorso sulla realtà, come e possibile conoscere la realtà? L'immutabile, il fisso, l'eterno, sono infatti per Platone la condizione indispensabile per poter comprendere il mutevole, l'incostante, il perituro. Ma su questo diremo ancora nei paragrafi seguenti.

Per tornare ora al nostro argomento, è facile capire come l'assimilazione dell' anima al mondo delle idee sia per ciò stesso la garanzia della sua immortalità:

Se veramente esistono questi esseri di cui andiamo ragionando continuamente, il buono, il bello, e ogni altro simile; e a ciascuno di questi noi riportiamo e compariamo tutte le impressioni che ci vengono dai sensi, riconoscendo che essi sono gli esemplari primi già posseduti dalla nostra anima non è necessario, per la stessa ragione per cui questi esistono, che anche esista la nostra anima prima ancora che noi siamo nati? (Fedone 76 d - e)

L'anima è simile in tutto e per tutto a ciò che è sempre invariabile... e dunque è proprio del corpo dissolversi rapidamente, e dell'anima invece rimanere del tutto indissolubile. (Fedone 79 e - 80 b)
www.filosofia.unina.it/sdf/ant/capVI/par8.htm


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00martedì 11 marzo 2008 19:16
L'idea di Jung a confronto...
Animus e Anima

L’uomo conserva in sé degli aspetti tipicamente femminili che spesso rimangono in sordina o misconosciuti.

Nel senso che in ogni uomo vi è una componente femminile inconscia nella propria personalità.

E’ anche vero il contrario che ogni donna ha una componente inconscia maschile.

Jung definisce la prima Anima ed il secondo Animus. Mentre l’Anima è il principio dell’eros e quindi si correla col modo con cui l’uomo si rapporta alle donne, l’animus è il logo, la razionalità.

Secondo Jung questi elementi costituiscono degli schemi o temi dominanti universali che originano dall’inconscio collettivo e costituiscono i temi delle favole, delle religioni, dei miti, delle leggende.

Jung attribuisce ad essi un nome specifico chiamandoli archetipi. L’uomo in tal senso non deve confrontarsi e relazionarsi soltanto con il mondo esterno, è necessario anche il confronto con una realtà interna costituita da prestrutture ereditarie, cioè dagli archetipi.

Le più importanti immagini archetipiche sono rappresentate dalla Persona, dall’Ombra, dall’Anima, dall’Animus e dal Sé. In questa sede poco ci soffermeremo sugli altri archetipi che non siano Animus, Anima ed Ombra.

L’archetipo costituisce lo zoccolo duro del complesso che per definizione è una costellazione emotiva al cui centro è posto un archetipo o immagine archetipica.

2.

Questa introduzione serve a chiarire che ogni essere umano ha in sé un buon numero di complessi, ma una persona "normale" mantiene un equilibrio tra essi. Quando per qualsiasi motivo l’equilibrio dinamico ed armonico si disfa succede la patologia.

Può accadere perciò che un’Anima ipertrofica sviluppi in un uomo aspetti caratteriali quali effeminatezza, ipersensibilità, melanconia.

Invece un archetipo Animus ipertrofico, determina in una donna l’evidenziazione di caratteri quali rigidità, intransigenza, spirito polemico.

Nell’essere umano al presenza nell’inconscio di figure di sesso opposto, come Animus ed Anima rendono noto che l’uomo ha in sé un doppio.

Infatti in molte culture primitive vi è diffusa ala credenza che ogni uomo entri nel mondo a metà, essendo l’altra metà la placenta.

Un esempio particolarmente calzante del modo in cui l’anima si manifesta come una figura interiore della psiche dell’uomo è fornito dai medici-profeti shaman) delle tribù eschimesi e di altre tribù artiche.

Taluni di costoro indossano indumenti femminili, o si dipingono il petto o le vesti, proprio per esprimere il loro intimo carattere femminile.

Nel Medioevo molto tempo prima che i fisiologi dimostrassero che , a causa della nostra struttura ghiandolare, noi possediamo elementi maschili che femminili, si diceva che "ciascun uomo porta una donna dentro di sé".

Jung perciò chiama questo elemento femminile anima, che costituisce essenzialmente una specie di rapporto interiore verso l’ambiente circostante, e in particolare verso le donne, che viene accuratamente nascosto dentro di noi.

Spesso ciascuno tenta di nascondere agli altri la "presenza della donna nell’individuo".

Secondo molte culture primitive la vita viene vista nel suo doppio.

In effetti anche nella prima infanzia i bambini specie quelli solitari tendono a crearsi una doppia personalità con la quale giocano.

Anche Jung nella sua adolescenza amava parlare di sé come costituito di due personalità la numero 1 e la numero 2.

La prima, diceva lui, era il portatore della luce, ed la seconda dell’ombra.

Il numero 1 vedeva la sua personalità come quella di un giovane mediocremente dotato, pieno di ambizione, di temperamento irrequieto e di modi discutibili, ora ingenuamente entusiasta, ora infantile, ora deluso, nel profondo un misantropo.

Dall’altro canto il n.2 considerava il n.1 un compito morale difficile e ingrato una specie di peso da subire comunque, complicato da molteplici difetti, come momenti di pigrizia, di depressione, incline ad amicizie immaginarie, limitato, con pregiudizi, incapace di capire gli altri, vago e confuso in filosofia.

Secondo Jung il n.2 non aveva un carattere definibile, era nato vissuto, morto tutto insieme.

Quando il n.2 predominava il n.1 era dimentico di sé e contenuto in lui così come il n.1 considerava il n.2 come una regione di interna oscurità.

Il n.2 si sentiva in segreta armonia con il medioevo, personificato nel Faust.



3.

Dice la Von Franz, allieva di Jung, che la vita è doppia, è un duplice impegno, un conflitto con sé stessa, perché implica perennemente la collisione, o conflitto, di due tendenze.

Jung lo esprime meglio questo conflitto con la definizione di un’altra figura che gravita nel mondo inconscio che è l’ombra : parte inconscia della personalità caratterizzata da tratti e comportamenti che la parte cosciente tenta di rimuovere o ignorare Nei sogni è rappresentata da una persona dello stesso sesso di chi sogna.

Quindi l’anima e l’ombra permettono di comunicare con la "terra dei fantasmi", così detta dagli sciamani, mentre noi chiamiamo inconscio.

Secondo Jung accettare questa parte di sé implica un accrescimento dell’energia della propria persona.

Anche i Presocratici hanno molti secoli prima di Jung considerato l’aspetto della coincidenza degli opposti, od ancora della Enantiodromia, come una cosa ricorrente che si ritrova nel pensiero dell’uomo antico e dell’uomo moderno.

Nella quadro di Magritte si riportano sapientemente simbolizzate le figure arcane del conflitto.

Infatti Magritte nel suo dipinto del 1937 raffigura un viandante seduto su un piccolo promontorio, con le spalle il mare, nella mano destra stringe un bastone e nella sinistra una sacca da viaggio.

Quello che però attira di più l’attenzione è la testa del viandante immaginata come una gabbia al cui interno si trovano due uccelli, l'uno dentro la gabbia e l’altro per il gioco di prospettive sembra dondolarsi tra dentro e fuori. Sembra che il primo attenda che l’altro si liberi e lo raggiunga.

In questo si esprime nuovamente il conflitto, in un gioco simbolico che ben lascia intendere il lavoro del terapeuta fatto di sofferenza e di cura.

Le colombe esprimono il bisogno di cura e la sofferenza che tale bisogno trasuda, negli uccelli dimorano l’anima ferita e quella prigioniera e nello stesso tempo il riscatto rappresentato dalla cura e dalla coincidenza degli opposti.

L’uomo moderno soffre di questa divisione della propria personalità, non trattandosi ovviamente di alcunchè di patologico.

Non accade solo al nevrotico che la propria mano destra non sappia che cosa fa la sinistra.

Ciò accade perché l’uomo vive immerso in ciò che Jung denomina personalità n.2, la più intuitiva, misteriosa, esoterica, che affonda le sue radici nell’inconscio.

L’uomo ha sviluppato la coscienza con lentezza e laboriosamente in un processo che condusse dopo molti secoli alla civiltà.

Si pensa che l’origine della coscienza possa farsi risalire all’invenzione della scrittura, al 4000 a.c..

Da allora ancora molti lati della nostra mente sono rimasti nell’oscurità.

Perciò ciò che chiamiamo psiche non corrisponde alla coscienza, ecco la naturale doppiezza.

www.heliosmag.it/99/1/romeo.html
« L'anima est féminine ; elle est uniquement une formation de la psyché masculine et elle est une figure qui compense le conscient masculin.

Chez la femme, à l'inverse, l'élément de compensation revêt un caractère masculin, et c'est pourquoi je l'ai appelé l'animus. Si, déjà, décrire ce qu'il faut entendre par anima ne constitue pas précisément une tâche aisée, il est certain que les difficultés augmentent quand il s'agit de décrire la psychologie de l'animus.

Le fait qu'un homme attribue naïvement à son Moi les réactions de son anima, sans même être effleuré par l'idée qu'il est impossible pour quiconque de s'identifier valablement à un complexe autonome, ce fait qui est un malentendu se retrouve dans la psychologie féminine dans une mesure, si faire se peut, plus grande encore. »

« Pour décrire en bref ce qui fait la différence entre l'homme et la femme à ce point de vue, donc ce qui caractérise l'animus en face de l'anima, disons : alors que l'anima est la source d'humeurs et de caprices, l'animus, lui, est la source d'opinions ; et de même que les sautes d'humeur de l'homme procèdent d'arrière-plans obscurs, les opinions acerbes et magistrales de la femme reposent tout autant sur des préjugés inconscients et des a priori. »

www.cgjung.net/oeuvre/textes/animus/index.htm

L'animus être créateur

« ... l'animus est aussi un être créateur, une matrice, non pas dans le sens de la créativité masculine, mais dans le sens qu'il crée quelque chose que l'on pourrait appeler un logos spermatikos - un verbe fécondant.

De même que l'homme laisse sourdre son oeuvre, telle une créature dans sa totalité, à partir de son monde intérieur féminin, de même le monde intérieur masculin de la femme apporte des germes créateurs qui sont en état de faire fructifier le côté féminin de l'homme.

C'est là l'origine de la "femme inspiratrice" qui, si elle est mal formée, recèle aussi en elle la possibilité de devenir la pire des viragos ... »


www.cgjung.net/oeuvre/textes/animus/createur.htm

Comment s'exprime l'anima ?

« De quelle façon l'anima s'exprime-t-elle dans la vie spirituelle intime de l'homme ? C'est ce qui reste incompréhensible aux femmes. L'anima exprime en quelque sorte le désir. Elle représente certains désirs, certaines attentes. C'est pourquoi on la projette sur la personne d'une femme, à laquelle se voient attribuées certaines attentes, des attentes unilatérales, tout un système d'attentes. C'est une forme de l'anima.

L'anima, chez l'homme, ressortit toujours à un système de relation. On peut même parler d'un système de relation érotique, alors que l'animus chez la femme ne représente absolument pas cela : il apparaît comme un problème intellectuel, un système de compréhension. L'anima représente un désir, une attente ou une certaine forme de l'attente. »

www.cgjung.net/oeuvre/textes/anima/expression.htm
Dialogue avec l'anima
« Il faut élever ce dialogue avec l'anima à la hauteur d'une technique. Chacun, on le sait, a la particularité et aussi l'aptitude de pouvoir converser avec lui-même. Chaque fois qu'un être se trouve plongé dans un dilemme angoissant, il s'adresse, tout haut ou tout bas, à lui-même la question (qui d'autre pourrait-il donc interroger ?) : "Que dois je faire ?" ; et il se donne même (ou qui donc la lui donne en dehors de lui ?) la réponse. »

Dialogo con Anima
« Tout l'art de ce dialogue intime consiste à laisser parler, à laisser accéder à la "verbalisation" le partenaire invisible, à mettre en quelque sorte à sa disposition momentanément les mécanismes de l'expression, sans nous laisser accabler par le dégoût que l'on ressent naturellement vis-à-vis de soi-même au cours de cette procédure qui semble un jeu d'une absurdité sans limite, et sans non plus succomber aux doutes qui nous assaillent à propos de l' "authenticité" des paroles de l'interlocuteur intérieur. »

www.cgjung.net/oeuvre/textes/anima/technique.htm

Développement de la conscience

« Au fur et à mesure que la conscience s'est développée, elle a perdu contact avec une partie croissante de cette énergie psychique primitive.

En sorte que l'activité mentale consciente n'a jamais connu cette activité mentale originelle, car elle a disparu dans le processus même de constitution de cette conscience différenciée qui seule pouvait parvenir à la réfléchir.

Mais il semble que ce que nous appelons l'inconscient ait conserver les caractéristiques qui appartenaient à l'esprit humain originel. »
www.cgjung.net/oeuvre/textes/conscience/developpement.htm
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