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Il Segreto del Fiore D'Oro

Ultimo Aggiornamento: 11/03/2008 19:02
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SAGGIO INTRODUTTIVO A C.G. JUNG E R. WILHEM, IL SEGRETO DEL FIORE D'ORO


1. In Ricordi sogni riflessioni Jung scrive di aver ricevuto nel 1928 “una lettera di Richard Wilhelm, contenente il manoscritto di un trattato di alchimia taoista intitolato Il segreto del fiore d’oro, che mi pregava di commentarlo. Subito divorai il manoscritto, poiché il testo mi dava una conferma, mai sognata, delle mie idee circa il mandala e la circumambulazione del centro. Questo fu il primo avvenimento che interruppe la mia solitudine. Mi resi conto di un’affinità; potevo stabilire legami con qualcosa e con qualcuno”.
L’ interesse per questo testo cinese dell’ VIII secolo d.C. appare dunque strettamente connesso alle vicende personali e all’attività creativa dello psichiatra zurighese, impegnato nell’ elaborazione del concetto di inconscio collettivo e nella teorizzazione del “processo di individuazione”. Consumata da tempo la separazione da Freud, Jung si era completamente dedicato alla costruzione di una psicologia originale, ispirata a una visione del mondo alternativa a quella di Freud, e invisa sia ai seguaci della psicoanalisi sia alla cultura accademica dominante. Di qui il sentimento di solitudine e l’ esigenza di trovare conferme alle sue intuizioni. Conferme che, nel caso del testo cinese, erano tanto più gradite in quanto avvaloravano, agli occhi di Jung, l’ ipotesi che l’inconscio collettivo –e gli archetipi che lo costituiscono- fosse una struttura psichica realmente universale.
Va qui ricordato che, sebbene il pensiero di Jung presenti al riguardo alcune oscillazioni, gli archetipi possono essere definiti, in termini generali, come funzioni inconsce innate presenti in tutti gli uomini le quali, modellando gli stimoli esterni, danno luogo a costrutti immaginali dotati di una forza e di un significato specifici. Detto in altre parole, l'archetipo è la disposizione inconscia a produrre rappresentazioni mitiche organizzate intorno a un particolare nucleo di significato. Tali costrutti veicolano l’ energia psichica e pertanto sono in grado di produrre o favorire trasformazioni negli atteggiamenti e nelle risposte comportamentali. L’ambiziosa pretesa di aver individuato un substrato psichico comune che va “al di là delle differenze di cultura e di coscienza” comportava l’ esigenza di fondare questa convinzione non soltanto su osservazioni cliniche e sulle rappresentazioni della mitologia occidentale ma anche su esempi tratti da culture diverse e lontane. Il segreto del fiore d’oro rappresentava quindi per Jung un’occasione importante per ampliare la base delle sue teorie. Egli ne approfittò con entusiasmo. Il che, se da un lato ci ha consentito di prendere atto di talune reali analogie tra prodotti culturali così apparentemente incomparabili, dall’altro rende ragione di alcune forzature che pure si manifestano nel Commento di Jung. Queste ultime possono essere considerate come un nuovo capitolo (e non certo l’ ultimo) di quella utilizzazione strumentale di idee e valori orientali che, da Schopenhauer al New Age, attraversa la nostra cultura.
Il metodo seguito da Jung per avvalorare l’ esistenza dell’ inconscio collettivo è lo stesso che -trasposto sul piano clinico- ha preso il nome di “amplificazione”. L’amplificazione è infatti quel procedimento che utilizza le più svariate concordanze e analogie mitologiche con lo scopo di approfondire la comprensione di testi onirici che presentano essi stessi contenuti di natura archetipica, e dunque sovrapersonale. Per questa via il testo onirico viene immesso dentro una rete di immagini e situazioni esemplari che funzionano come una cassa di risonanza e favoriscono l’ approfondimento del suo significato.


2. L’analisi del Commento junghiano può essere condotta secondo molteplici punti di vista. Ne ho scelti tre, che mi sembrano cogliere aspetti diversi del pensiero e delle strategie operative di Jung.

2.1. Il Commento può essere anzitutto considerato una esposizione sintetica e in molti passi particolarmente efficace della teoria psicologica elaborata da Jung sino al momento della sua stesura. In base al testo, essa può essere così riassunta.
La scomposizione della realtà in coppie di opposti, coeva all’ emergere della coscienza dallo sfondo indifferenziato dell’ inconscio, è un dato strutturale dell’esistenza. Il costituirsi dell’ Io, e dunque di una identità specifica, rompe l’indistinzione originaria: da quel momento la realtà si organizza in termini di polarità e di contrasto. La coscienza discrimina e, discriminando, assegna dei valori. Alla luce crepuscolare succede una luce più viva e netta, che però illumina soltanto un’area delimitata. Fuori di quella l’oscurità si fa più fitta; e questo va riferito sia a ciò che è sconosciuto, sia a ciò che è avvertito come minaccioso e riprovevole. La forza dell’ Io, la sua consistenza, la capacità di canalizzare l’ energia in progetti di vita viene pagata con l’ esperienza della finitudine. Questa esperienza non riguarda soltanto ciò che proviene dall’ esterno, ma passa anche all’ interno dell’ individuo: è la finitudine dell’uomo cosciente, che sente come inammissibile ciò che è fuori della coscienza, l’inconscio nella sua “selvatichezza indomita”.
Purtroppo ogni riuscita genera da sé il suo limite: nel nostro caso l’ efficienza dell’ Io, la sua direzionalità, è minata dal rischio della unilateralizzazione. Una coscienza che si unilateralizza è una coscienza che si inaridisce, perdendo il contatto con l’altro da sé, con la matrice feconda dell’ inconscio. La scissione determina uno squilibrio che, quando viene negato, corrisponde all’instaurazione di ciò che Jung definisce come un “monoteismo della coscienza”. Sul piano individuale, la nevrosi è, per Jung, la conseguenza di questa divaricazione di conscio e inconscio, il punto di arrivo di un atteggiamento retto da una logica disgiuntiva e insieme la reazione della psiche totale a questo atteggiamento. Ciò che è stato espunto o non riconosciuto dalla coscienza si costituisce in sistemi psichici parziali dotati di autonomia, che si oppongono alla posizione della coscienza provocando conflitti tanto più intensi quanto maggiore è la dissociazione della psiche. Il fenomeno non riguarda soltanto gli individui ma anche le civiltà. Jung legge la storia della cultura occidentale e il “disagio della civiltà” nei termini di questa tragica assolutizzazione dei valori coscienti, rappresentati da ciò che egli qui chiama la “tirannia dell’ intelletto”.
Il recupero dell’ equilibrio comporta l’ accettazione della duplicità, non solo come l’ inevitabile forma in cui l’ esperienza ci si presenta, ma anche come condizione perché questa acquisti significato. Il cosiddetto processo di individuazione consiste essenzialmente in un itinerario che, partendo dalla critica delle false sicurezze dell’ Io, perviene alla possibilità di una creativa collaborazione di conscio e inconscio passando attraverso l’ accettazione del conflitto, cioè della tensione tra gli opposti. Questa è anche la strada per superare i problemi piuttosto che risolverli. Scrive Jung: “…i problemi più grandi e importanti della vita sono, in fondo, tutti insolubili; e non possono non esserlo, perché esprimono la necessaria polarità inerente a ogni sistema di autoregolazione. Essi dunque non potranno mai essere risolti, ma soltanto superati”. Il superamento coincide con un ampliamento della coscienza, che integra in sé nuove mete sino a quel momento custodite dalle immagini prodotte dall’ inconscio. La funzione del simbolo, cui in questo testo Jung accenna fuggevolmente, è appunto quella di unire paradossalmente conscio e inconscio, e di additare così nuove vie, nuove possibilità di sviluppo, veicolando l’ energia psichica prima sequestrata nel conflitto fra i termini opposti. Accettare l’ambivalenza e la conflittualità significa però spostare l’ Io dalla posizione centrale tradizionalmente attribuitagli, ridurne l’ ingenua sicurezza, riconoscerlo come parte di una realtà sovraordinata, che Jung chiama Sé, unità paradossale di conscio e inconscio.
Quale la via per renderci permeabili all’ inconscio, e permettergli di parlarci? L’inconscio qui evocato è naturalmente l’ inconscio collettivo: dunque non il prodotto della rimozione quanto piuttosto il deposito di significati potenziali. Il percorso su cui Jung si sofferma in questo testo è la via immaginale, quella che in altri luoghi egli chiama “immaginazione attiva”. Si tratta di far parlare le immagini, di “lasciarle accadere” senza opporre resistenza, di seguirle, di entrare in relazione con loro, accettando di sacrificare il pregiudizio cosciente, ispirato a una visione critica e razionalistica. Solo così è possibile sperimentare di nuovo l’efficacia delle immagini e del daimon che le abita, la cui realtà è troppo facilmente qualificata come “illusione”. In questo modo si crea un ponte tra coscienza e inconscio e, di conseguenza, un ampliamento della personalità.
Tra le immagini ricorrenti, Jung dedica una particolare attenzione ai mandala –strutture forti, spesso cerchi racchiusi in un quadrato- che vengono intesi come simboli della totalità. L’aspetto che Jung mette particolarmente in evidenza è quello del movimento, della circolazione dell'energia, inteso come analogo della “animazione di tutte le forze chiare e oscure dell’ umana natura, e di conseguenza di tutti gli opposti psicologici, di qualsiasi natura possano essere”. In termini psicologici, questo corrisponde a “girare intorno a se stessi” in modo da coinvolgere tutti i lati della personalità.
Possiamo chiederci quale sia il posto delle immagini mitologiche e religiose in questo contesto. Per Jung esse sono oggettivazione di contenuti psichici autonomi, portatori immaginali delle potenze archetipiche, ipostasi del senso dotate di una particolare numinosità. Qui come altrove la psicologia della religione si configura in Jung come una psicologia della esperienza religiosa. L’accento cade dunque sul fattore soggettivo, per cui Jung è portato a distinguere nettamente l’ emergenza interiore di immagini e simboli religiosi dalle concrezioni dommatiche offerte dalle religioni storiche; e, più radicalmente, a distinguere tra l’ esperienza e i correlati metafisici di questa. Egli fa proprio il principio kantiano di esclusione della trascendenza e rivendica rigorosamente un atteggiamento empirico, volto esclusivamente ad accertare e a rendere ragione dei fenomeni che cadono sotto l’osservazione psicologica. Dei e demoni sono dunque personificazioni di forze psichiche, che si impongono alla coscienza come Potenze, cioè come portatrici di valori. Questo atteggiamento si fa evidente quando, nel Commento, Jung suggerisce l’idea che i grandi filosofi orientali siano “psicologi simbolici”. L’intenzione di “portare alla luce della comprensione psicologica ogni cosa che sappia di metafisica” e così di riportare la “cosiddetta metafisica nella sfera dell’ esperibile” costituisce quello che potremmo chiamare l’ immanentismo metodologico di Jung.

2.2. Un altro percorso cui ci invita il testo junghiano è quello attraverso le corrispondenze e le divergenze tra la sua concezione della struttura e dei processi psichici e le immaginose metafore del Segreto. Si tratta di un percorso non facile, come è dimostrato dal fatto che anche Jung -il quale afferma tuttavia di avervi trovato conferme essenziali alle sue vedute- non manca di sottolineare, nel corso del Commento, numerose diversità.
Alcune di queste non sono molto importanti ai nostri fini in quanto riguardano differenze generali e in qualche modo ovvie nella visione del mondo e nei processi di pensiero. Tale è ad esempio l’osservazione che l’Oriente pratica la comprensione del mondo “attraverso la vita”, mentre l’Occidente generalmente si appaga della spiegazione scientifica. Questa differenza torna anzi a vantaggio della tesi junghiana secondo cui, per temperare l’ atteggiamento razionalistico, l’ uomo occidentale dovrebbe praticare un rapporto più diretto, emotivo e immaginativo, con i contenuti dell’inconscio. Ci troviamo qui di fronte a quelle differenze che, avendo un carattere compensatorio, chiedono per così dire di essere integrate perché la personalità ne risulti arricchita.
Pone invece degli interrogativi l’ osservazione secondo cui la pratica di vita cinese non ha mai separato drasticamente gli opposti, né violentemente rimosso gli istinti, ignorando dunque quella tendenza a un “eroico autosuperamento” proprio della mentalità occidentale. Infatti, se le premesse psicologiche sono diverse (non si dimentichi che per Jung il processo trasformativo prende le mosse da una eccessiva unilateralità dell’atteggiamento cosciente), deve immaginarsi che anche gli scopi divergano. Tocchiamo qui il nucleo problematico delle analogie tra processo di individuazione e via di liberazione taoista. Jung tende a sottolineare gli elementi comuni, ma questi, come si vedrà, riguardano soprattutto il metodo e la configurazione complessiva, non la meta.
Il punto principale di divergenza concerne manifestamente la posizione dell’ Io. Se la trasformazione della personalità significa per Jung riuscire a reggere la tensione degli opposti, riconoscendo la legittimità di entrambi, posto che una delle opposizioni fondamentali è quella tra l’ Io e l’inconscio, ne risulta l’impossibilità di eliminare l’ Io cosciente, giacché in questo caso verrebbe meno uno dei termini della relazione. Viceversa, per l’Oriente la liberazione sembra essere essenzialmente liberazione dall’ Io, superamento della coscienza individuale. Il testo del Segreto sembra in proposito piuttosto esplicito. Si legge che “lo spirito primordiale sta al di là delle opposizioni polari”, che “il corpo deve essere come legna secca, il cuore come cenere spenta”, che “uscendo dall’essere e rientrando nel non essere, si compie il mirabile Tao”. Si torna alla “vuota infinità”: “senza principio, né fine. Senza passato, né futuro… La coscienza si dissolve in contemplazione”.
Il Commento di Jung presenta al riguardo delle oscillazioni. A volte sembra voler assimilare le due vie; in altri passi sottolinea chiaramente, anche se indirettamente, le differenze. Così, ad esempio, egli osserva che lo Yoga si rivolge solo a coloro “la cui coscienza si accinge a distaccarsi dalle forze vitali per entrare nell’unità indivisa”. Per questo –aggiunge- occorre aver saldato “coscienziosamente tutti i debiti verso la vita”. E conclude: “Si tratta di un ideale realizzabile, in definitiva, solo nella morte”.
Quali sono dunque le analogie atte a rinforzare il punto di vista junghiano sulla psiche? Per ciò che riguarda il gioco degli opposti, si può ricordare la complementarietà di Yin e Yang, che sono concepiti appunto come principi opposti dalla cui equilibrata interazione dipende il benessere individuale e sociale. Per quanto attiene invece alle modalità del processo trasformativo, Jung sottolinea anzitutto il parallelismo tra gli “stati d’animo che accompagnano il processo di sviluppo”. Più importante è però l’ analogia dei contenuti immaginali (i mandala ne sono un esempio), che si pone come conferma indiretta del comune sostrato archetipico. Analoga è anche l’attribuzione di realtà (“reale” in questo caso significa “in grado di produrre effetti”) alle forze psichiche interiori quali si manifestano nelle immagini simboliche. In entrambe le esperienze, la fantasia è vissuta come qualcosa di molto diverso, anzi di opposto, rispetto ai comuni sogni a occhi aperti.
Sopra ogni cosa però risalta come elemento comune la struttura stessa del processo, cui è sottesa l’ esigenza della trasformazione interiore. A seconda delle tradizioni culturali le mete della trasformazione possono variare; quello che resta fermo è il modello archetipico dell’ autorealizzazione.
Appare in conclusione evidente che la possibilità di trovare analogie tra esperienze così lontane nel tempo e nello spazio comporta la loro decontestualizzazione al fine di isolare quegli elementi strutturali che possono giustificare la fecondità dell’accostamento.

2.3. Un terzo possibile approccio al Commento è quello di utilizzarlo come testimonianza delle modalità con cui Jung si accosta al mondo orientale e, più in generale, alle culture diverse dalla nostra.
Nel discorso commemorativo pronunciato in occasione della morte di Richard Wilhelm Jung espresse, seppure in modo larvato, l’opinione che la morte dell’amico fosse stata favorita dalla crisi spirituale generata dal profondo contrasto che in lui opponeva Oriente e Occidente. Il grande sinologo “aveva sacrificato dentro di sé l’uomo europeo”, facendosi “afferrare” (ergreifen) dalla “civiltà straniera dell’Oriente”. Tornato in Europa, era parso a Jung che negli ultimi anni della sua vita si stesse verificando una inversione di tendenza e che “l’Europa e l’uomo europeo gli si accostassero sempre di più, giungendo addirittura a incalzarlo”. Conclude Jung: “Non v’è nulla che possa essere sacrificato per sempre. Tutto ritorna, sia pure in forma mutata. E quando ha avuto luogo un sacrificio assai grosso, l’aspetto sacrificato, allorché si ripresenta, deve trovare ancora un corpo sano e resistente, capace di sopportare le scosse di un profondo rivolgimento”.
Indipendentemente dal caso specifico, questo testo mostra chiaramente con quanta serietà e cautela Jung affrontasse il confronto tra civiltà. Anche nel Commento, come in tutti i suoi scritti dedicati all’Oriente, egli ammonisce più volte a non lasciarsi trascinare in superficiali e inconsulte operazioni sincretistiche; quando non si tratti di mero turismo culturale (giocare a “fare i primitivi”) scambiato per apertura su mondi diversi. Allo stesso modo qui e altrove critica la pratica dello yoga da parte dell’uomo occidentale, sottolineandone i rischi anche fisici. “Il comodo scimmiottare –aggiunge- genera sempre una condizione instabile”. E ancora: “Si fa di tutto pur di sfuggire alla propria anima”. Insomma, Jung sarebbe rimasto scandalizzato dalla moda New Age e dalla avidità consumistica che la porta a coprirsi con “sfarzosi abiti orientali” e ad impossessarsi di una ricchezza “della quale non siamo assolutamente eredi legittimi”. “Lo yoga a Mayfair o nella Fifth Avenue… è un falso spirituale”.
Se grande era la severità di Jung nel biasimare ogni dilettantesca mescolanza di valori e di riti, altrettanto grande era la sua inclinazione al dialogo onesto fra interlocutori anche lontani. Da più parti è stata del resto sottolineata la centralità dell’ impianto dialogico nel pensiero di Jung: si tratta di una intenzione che già lo spingeva, quando era giovane assistente al Burghölzli, a parlare con i pazienti schizofrenici per tentare di comprendere il loro linguaggio; che poi ha improntato i suoi costanti rapporti intellettuali con le più diverse tradizioni culturali; che ha ispirato la costruzione di quel teatro interiore nel quale l’ Io dialoga appunto con i tanti altri personaggi che lo popolano; che ha infine modellato la sua concezione della terapia. Questo atteggiamento ermeneutico si ritrova anche nel Commento, laddove Jung riafferma l’ esigenza di restare ancorati solidamente alla cultura nella quale siamo nati e da cui siamo stati formati, ma anche riconosce i limiti di questa stessa cultura (“La coscienza occidentale non è affatto l’ unico tipo di coscienza possibile; è invece condizionata storicamente e geograficamente limitata, ed è rappresentativa di una parte soltanto dell’umanità”) e adopera la metafora del ponte per designare un dialogo che permetta un arricchimento spirituale senza che però nessuna delle parti rinunci ai suoi fondamenti.
Che poi il metodo analogico, cui Jung abitualmente si affida, non sia stato sempre utilizzato da lui in modo sorvegliato, e che talvolta, come si è accennato nel paragrafo precedente, nei suoi scritti si avverta il rischio di una strumentalizzazione dell’Oriente per gli scopi dell’ argomentazione, indica che non sempre si è all’ altezza delle proprie premesse. Se assumiamo come esempio il Commento, vediamo che, dopo aver incoraggiato nel testo qualche slittamento di significato, nelle Conclusioni Jung recupera pienamente la disposizione ermeneutica, limitandosi per il resto a sottolineare le concordanze relative agli stati psichici e al simbolismo, che sono le più fondate sul piano descrittivo e anche le più probanti ai fini della conferma dell’ esistenza di un inconscio collettivo.

3. Per concludere, un accenno allo stile compositivo di Jung. Sin dalla Introduzione si possono cogliere i tratti salienti dello “stile” junghiano quali, dal più al meno, si presentano in tutti i suoi lavori. La frase iniziale dichiara “un profondo senso di estraneità nei confronti di questo testo cinese”. E’ una affermazione di natura personale, che poco dopo viene confermata e per così dire legittimata da una dichiarazione di principio in difesa del “vivo coinvolgimento diretto” e della “comprensione partecipe”. Da questa matrice procedono le sprezzature, gli sfoghi, le battute, le rotture delle convenzioni diplomatiche e in genere tutto ciò che permette a Jung di uscire improvvisamente dalla pagina per interrogare direttamente il lettore. A questo atteggiamento si contrappone però la difesa del metodo scientifico e la pretesa di operare secondo criteri di obbiettività. Anche questa è una affermazione di principio, temperata però dall’ esigenza che si tratti di una scienza che non sia “fine a se stessa” e, soprattutto, non totalitaria, non esclusivista. Le due opzioni si riflettono nello stile, che alterna zone argomentative, nelle quali si insinua a volte una certa pedanteria, un amore per il dettaglio filologico e per la citazione dotta, e subitanei squarci umorali, reazioni irritate, ricordi personali.
Tutto ciò non torna certamente a vantaggio dell’ordine e della chiarezza espositiva, anche perché si combina con la tendenza alla divagazione. Questa corrisponde talvolta a uno slittamento nel dettaglio; altre volte è un ritorno ai temi portanti che accompagnano Jung da un libro all'altro. Per esempio, nel Commento, i temi cui spesso l’ autore ritorna sono l’ inconscio collettivo, l’unilateralità della coscienza occidentale, la coesistenza dei contrari, il richiamo all’ empiria, la “realtà” della psiche, il Cristianesimo. Come accade agli innamorati, Jung a volte si accomiata improvvisamente dall’argomento specifico che sta trattando e va a salutare i nuclei di pensiero a lui più cari; salvo a tornare poco dopo, rinfrancato, al suo lavoro.
Si hanno dunque digressioni, ripetizioni, lungaggini ma raramente si ingenera noia, sia perché, in definitiva, gli argomenti trattati non sono mai oziosi, sia perché una frase polemica o una osservazione pungente vengono a ravvivare l’attenzione e talvolta a definire –meglio di una dimostrazione- la questione trattata. A questo proposito, il Commento contiene alcune frasi memorabili, di cui la più nota è: “Le divinità sono diventate malattie”, con sarcastico riferimento all’atteggiamento razionalistico che ha creduto di abolire i fatti svalutando i nomi e le immagini dietro cui quelli si nascondevano: gli dèi sono naturalmente le potenze della psiche che, negate, per così dire si vendicano convertendosi in sintomi. Ma assai gustose sono anche espressioni come “il monoteismo della coscienza”, o l’ invito all’uomo occidentale a “imparare a riconoscere queste potenze psichiche, senza aspettare che le sue lune, i suoi nervosismi e le sue idee deliranti lo illuminino dolorosamente sul fatto che egli non è l’unico padrone in casa sua”. Ma evidentemente l’ uomo occidentale (oggi, con la globalizzazione, non solo lui) fa come certi pesci, “che credono di contenere in sé il mare”.
www.arpajung.it/sorgenti/segreto_fiore_doro.htm
"Morirei tra le tue braccia felice di vedere i tuoi occhi come ultima cosa"
"Vibro per Te"
11/03/2008 19:02
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